Massachusetts General Hospital

 

 

Venerdì 29 luglio 2005. Ore 18. Frankfurt Airport.

Parte l'aereo che mi porterà nel mio sogno americano. Mille pensieri si affollano nella mia mente, mille dubbi, mille incognite. So solo una cosa: darò il massimo possibile per sfruttare questa incredibile opportunità che - un po' per fortuna, un po' per merito - mi è capitata. Sono inoltre conscio (grazie anche alle non troppo velate allusioni dei responsabili padovani dello scambio) che tutta la fama della mia ultracentenaria università e facoltà grava sulle mie spalle e che, qualsiasi sarà la mia performance, contribuirà in maniera determinante a costituire - nelle menti delle controparti bostoniane - una ben definita opinione della Schola Medica Studii Paduani.

 

Martedì 9 agosto 2005. Boston.

È da poco iniziata la mia seconda settimana al Massachusetts General Hospital (MassGeneral o MGH, per gli amici).

E mi sembra siano già passati mesi.

Quando sono arrivato, mi sono trovato completamente frastornato. Tutto grande, tutto moderno, tutto perfetto. Subito a sbrigare le prime formalità burocratiche: camice, due scrubs (i “pigiami” da pronto soccorso, qui usati per fare le “notti” o “on-call”), tesserino magnetico con tanto di foto, buoni pasto, manualetto dello specializzando (resident), cercapersone (beeper o pager). Mi è venuto da ridere: neanche fossi un medico vero!

Quando mi è stato detto che l’indomani avrei iniziato alle 7, mi sono messo a ridere e ho pensato che probabilmente sarebbe stata un’eccezione di quel giorno. Ma mi sbagliavo. Tutti i giorni, dal lunedì al venerdì, dalle 7 alle 19. Minimo. Oggi, per esempio, ho finito alle 20:30.

Il ritmo di lavoro, negli Stati Uniti, è massacrante. Sono tutti più o meno workaholic. Non conoscono il significato della “pausa caffè”, non prendono le cose con calma e filosofia come da noi. Tutto funziona, tutto è rapido, bisogna produrre, produrre, produrre. Mai una distrazione, mai un momento di svago, mai una battuta, neanche per abbassare la tensione. Al massimo, le battute le si fanno a sfondo medico. Punto.

Sono stato assegnato a White 10, Team C. In pratica, nell’edificio White del MassGeneral, al decimo piano, c’è un gruppo (il Team C) formato da un Junior Resident (David, UPenn) (cioè specializzando del secondo dei tre anni di specializzazione in Medicina Interna), quattro Intern (Maha, McGill (Canada); Michael “Mike” (Vanderbilt); Ryan (UCSF); Alexis (Duke)) e una studentessa della Harvard Medical School, Risha. A coordinare tutti (ma la sua presenza non è strettamente necessaria, visto che basterebbe David da solo a far girare la baracca…), c’è il Chief Resident, Michael Mannstadt, tedesco di Jena, un dottore molto disponibile, simpatico e positivo.

Ogni mattina si inizia alle 7. David ci tiene ogni giorno una lezione su un piccolo argomento della medicina. E poi via, a visitare tutti i pazienti del nostro reparto di 19 letti. Tutto il Team visita tutti i pazienti. Più pazienti si vedono, più ci si confronta tra specializzandi, più si ripetono meccanicamente ogni giorno, ogni ora, gli stessi algoritmi e processi mentali, … più si impara, e più in fretta (Medicina Interna qui è tre anni contro i cinque in Italia). Questa è la filosofia americana in medicina. E funziona. Almeno al MassGeneral.

David è un ragazzo nei suoi late 20s, tipicamente americano (nella parlata e nell’aspetto: porta infatti una patriottica spilla-bandiera americana sul bavero del camice). È un lavoratore infaticabile. Inizia alle 6 (dico, le sei di mattina…), per primo. E stacca almeno alle 21, per ultimo. Ovviamente. È un leader nato. Dal primo all’ultimo minuto dell’attività di reparto è lui il direttore d’orchestra, il conduttore dello show. Ma lo fa senza presunzione, senza arroganza, senza voglia di comandare. Chiede sempre il parere di tutti, o se qualcuno ha domande da fare (Interns, studenti – me compreso –, pazienti e parenti). Sa sempre quello che bisogna fare. Non ha semplicemente bisogno di aiuto dal Chief Resident (Michael da Jena), ma – se anche ne avesse – non esiterebbe a chiederlo. Riesce a maneggiare con professionalità ed empatia tutte le situazione: dal paziente ultraottantenne con un repertorio di tutta la patologia medica addosso che vuole morire, che non vuole più lottare; fino al drogato-alcolizzato che tratta male infermiere e team medico. Con professionalità e tatto riesce sempre a fare il meglio per il paziente compatibilmente con le esigenze del team.

Ryan e Mike sono due infaticabili lavoratori pure loro. Però sono due pezzi di ghiaccio. Mai un’emozione, mai una battuta che esuli dal seminato medico. Mai un momento di apertura personale verso gli studenti (o meglio, verso di me, perché Risha, la studentessa della Harvard Medical School, è come loro). A domanda (personale), rispondono. Lo stretto necessario. Punto e basta. Però non si può dire che non siano pazienti, gentili e disponibili: a ognuno dei miei centomila quesiti e delle mie richieste, cercano sempre di rispondermi.

Alexis sembrava la più stronza e distaccata del gruppo. Ma negli ultimi giorni si è aperta un po’ a me, tant’è che stamattina mi ha addirittura rivolto per prima la parola, nella strada tra la stazione del metro e l’ospedale. Peccato, perché da domani inizia un tirocinio elettivo e non sarà più dei nostri.

Maha è una giovanissima Intern (gli altri hanno tutti sui 29-30 anni), di 24 anni. Nata e cresciuta in Libano, ha fatto Chimica all’università in Canada, poi Medicina. E, adesso, è riuscita a entrare al MassaGeneral. A tempo di record. Complimenti a lei! Dopo i primi giorni di assoluto silenzio e diffidenza, da ieri ha iniziato pure lei a parlarmi e a sorridermi. Tant’è che adesso scherziamo anche… E, per uno che ha passato solo una settimana nella società americana, non è mica male.

Ogni giorno all’MGH è un giorno ricchissimo, intenso, pieno di eventi, episodi particolari, pazienti interessanti, occasioni per imparare qualcosa… Dopo aver visto tutti i vecchi pazienti, arriva il Chief Resident, col quale visitiamo quelli nuovi. Dopodichè, anche lui ci tiene una lezioncina, fornendoci sempre delle fotocopie di pubblicazioni per corroborare con dati oggettivi i suoi insegnamenti. A mezzogiorno, andiamo a mangiare. E voi direte: finalmente un momento di pausa! E invece no!! Perché non si può “sprecare” tempo per mangiare. Quindi, mentre si mangia (non troppo male e, soprattutto, gratis), si assiste alla noon conference: in pratica, ogni giorno un medico dell’MGH ci illustra i suoi ultimi studi o ci tiene una lezione di ricapitolazione su argomenti di interesse medico quotidiano. E, siccome i ricercatori e i medici al MassGeneral sono davvero molti, ogni giorno, per tutto l’anno, c’è una conferenza.

Il pomeriggio è un po’ meno frenetico e anche un po’ più interessante. Ultimamente, per esempio, David mi manda giù in radiologia per chiedere delucidazioni su alcuni referti di immagini di radiodiagnostica. Poi, io, riferisco tutto durante uno dei tanti momenti in cui ci si riunisce tutti per fare il punto della situazione.

Questi “compiti” mi fanno sentire integrato e un minimo importante nel Team. E, alla fine, David, che è davvero un leader nato, ringrazia tutti i membri del Team per il loro contributo, dal primo all’ultimo (e quindi anche me) e ci motiva a continuare il buon lavoro finora fatto.

Per quanto riguarda l’ospedale in senso stretto, il Massachusetts General Hospital è semplicemente il paradiso. Tutto è ultramoderno. Ci sono molti edifici, architettonicamente sobri e belli, tutti interconnessi tra loro a ogni piano, tutti con almeno quattro ascensori.

La sala in cui sono riuniti tutti i radiologi per refertare Rx, TC, RM, eco e angiografie sembra una di quelle da cui, a Cape Canaveral, gli scienziati della NASA controllano lo Shuttle: ogni radiologo ha a disposizione un computer con uno schermo e due extra schermi speciali in serie per visualizzare le immagini. Per refertarle, non scrivono niente: dettano a un programma di riconoscimento vocale. Che non sbaglia una parola. I radiologi, come tutti all’MGH, sono estremamente disponibili e gentili, per spiegare a chiunque qualunque cosa siano in grado di spiegare.

Ci sono cinque unità di terapia intensiva (ICU): due di cardiologia, una di medicina, una di chirurgia e una di neurologia. Quello di “E.R.”, in confronto, sembra un ambiente del Terzo Mondo. E non esagero. Ogni stanza è spaziosa, ha una porta scorrevole a vetri, contiene tutto l’occorrente per mantenere in vita il malato, tutto è ordinatissimo. Fuori dai box per i malari, si estende un bancone di 10-15 metri, su cui troneggiano una mezza dozzina di computer con schermo LCD. Anche qui vige l’ordine più totale. Analogamente, il personale – medico e non – è estremamente professionale e disponibile.

Il Pronto Soccorso (Emergency Department) è grande, ma non è altrettanto impressive quanto le ICU, forse anche a causa del condizionamento esterno fornito dal noto serial televisivo. Comunque, anche qui, tutto impeccabile, nulla da dire.

Il reparto standard è anni luce più avanti rispetto anche quelli più belli dei migliori ospedali italiani. Ad esempio, nel mio reparto c’è un laboratorio dove i tecnici forgiano protesi e ortesi su misura a tempo di record. C’è poi una sala di fisioterapia (con tanto di materassi, macchine, pesi, ecc.). E, logicamente, non poteva mancare una saletta in cui pazienti, famiglie e dottori possono parlare in privato.

Dal punto di vista dell’operatore sanitario, il MassGeneral è l’ospedale più efficiente e user-friendly che abbia mai visto. Non ci sono referti cartacei, non ci sono lastre volanti, niente richieste di consulti e relativi referti. Nulla di tutto ciò. Infatti, l’MGH, insieme ad altri ospedali di Boston, fa parte di Partners HealthCare Systems, una società che offre servizi informatici, logistici (cercapersone, buoni pasto, ecc.) e di trasporti (shuttle service tra le strutture sanitarie aderenti alla compagnia). In particolare, tutto l’aspetto di esami, procedure diagnostiche, consulti, storie cliniche, ecc., è gestito via computer, ed è accessibile in qualsiasi momento – per ciascun paziente, e da qualsiasi operatore autorizzato (tra cui io, in queste settimane) – da qualsiasi computer dell’ospedale. All’inizio tutta questa informatizzazione appare esagerata. Ma bastano pochi giorni lavorandoci insieme per rendersi conto che la produttività e la facilità d’uso sono sensibilmente maggiori, rispetto al tradizionale sistema basato sui fogli di laboratorio, le lastre, le cartelle cliniche, ecc. E, fattore assolutamente da non trascurare, i costi sono marcatamente inferiori (soprattutto se considerati su una scala pluriennale). Più si evolve nell’apprendere come le varie parti del programma funzionano, più ci si accorge delle potenzialità prima sconosciute di cui ci si può avvalere con questo avanzato e potente strumento: ad es., posso tranquillamente “navigare” dentro il corpo di una persona, attraverso a una risonanza magnetica o una TC; e posso anche ingrandire, mettere dei marcatori, misurare delle distanze, ecc., proprio come fanno gli operatori di radiologia in fase di acquisizione delle immagini (che però, normalmente, verrebbero stampate, perdendo quindi i vantaggi derivanti dal supporto elettronico e digitale).

Inoltre, per un non ben chiarito meccanismo del Fato, qui al MassGeneral arrivano dei pazienti tanto eccezionali, quanto straordinario è l’ospedale e chi vi lavora. Pazienti che rappresentano un compendio vivente di buona parte delle patologie esistenti; oppure casi di malattie abbastanza comuni causati però da cause rarissime. Oppure ancora, pazienti psicotici o drogati-alcolizzati, che creano non pochi problemi di gestione a Intern e soprattutto a Junior.

 

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